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Dal catalogo “Mostra d’Arte contemporanea delle Province di Ancona e Macerata a Dusseldorf-Mettmann- 16-23 aprile 1966
Vicinissimo a Zoren, ed anche partecipante al « Gruppo il Punto » è lo Scultore Umberto Peschi, nato ed operante a Macerata. Anche su lui amiamo riportare le parole di Toniato, dettate nella stessa occasione della grande mostra presso la Galleria Gritti di Venezia. «Una precisa volontà costruttiva è alla base delle ricerche plastiche di Peschi; infatti egli tende a stabilire un valore modulare con cui esalta i ritmi unitari, le cadenze strutturali, divenute ormai la sostanza spaziale di questi rilievi, di queste intersecazioni, cioè il significato essenziale del suo fare plastico. Non è solo la ricerca quindi di una legge proporzionale, più evidente per la successione modulare dei suoi termini costruttivi, a interessarlo, così come l'articolo quasi monumentale, il ritmo cadenzato di quei volumi non esaurisce la particolare tessitura spaziale dell'immagine ». Peschi opera nello srazio e costruisce lo spazio; adotta prevalentemente come materia il legno; sfrutta la nobiltà di una materia che non consente ripensamenti ma solo rigorosa precisione di taglio e di misura. E lo spazio entra nelle sculture che si libreranno sempre pure, onde acquisiranno un carattere di monumentalità anche se di dimensioni ridotte; poiché il loro sviluppo, il loro ingigantirsi è automatico sol che le si osservino. E sono piani orizzontali e verticali, che si inseguono costanti, aperti nell'infinito; che si pensa non abbiano a finir mai; e ciò tenendo presente la continua differenza di forme e di volumi, onde se il modulo può venir posto a base, di modulo non possiamo assolutamente parlare; perché modulo è ripetizione continua e costante di identico elemento, anche se su scala diversa, strutturazione è divenire, e il divenire è trasformazione cui unica radice semmai è il richiamo. Ben giustamente il Dania diceva che le opere di Peschi evidenziano « misure di spazio-tempo». Non ha importanza per Peschi la dimensione dell'opera; piccola o grande che sia -una dei fattori che lo accomuna a Zoren -e per questo abbiamo posto vicini i due artisti, -l'opera resterà valida; lascerà pensare e obbligherà l’osservatore ad una analisi di pensiero al di fuori della pura e semplice contemplazione.
Goffredo Binni
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Dal catalogo della mostra Vesprinis’ Meetings, Porto Sant’Elpidio, dicembre 1983
IL TARLO
Erosione di rocce per insetti invisibili, raggi di luce in un universo sempre diverso e difforme, strutture possenti rese caduche dal logorio di un tempo infinito, piani verticali ed orizzontali interrotti da un qualcosa di imprevedibile ed incerto, un erigersi comunque ed ovunque; fori, trafori, gallerie per un mondo immaginario nel quale inserire l'immagine dell'esterno; sobrietà e serietà assoluta di composizione e di immagine; vuoti in un tutto pieno, sicché l'aria e lo spazio circostante abbiano libero, accesso; frammenti di antichi manieri pieni di storia logorati solo da anni infiniti di vita, lasciati all'incuria degli uomini, ero- si come per incanto. IL TARLO: quel piccolo stupendo insetto dalle mandibole feroci che tutto divora, che distrugge uomini e cose, carte insigni e mobili pregiati, che fa crollare soffitti istoriati e che del suo rodere fa ragione di vita e di creazione; che scava gallerie infinite e cunicoli quali labirinti in cui la fine è l'inizio di un nuovo progredire e così ancora daccapo, finche esista materia da mordere, finché la struttura sia solo spazio e il vuoto l'assoluto; questo piccolo insetto lucente che corre e sfugge al solo affacciarsi di un'ombra, che si arresta immobile al primo presentarsi di un ostacolo; lo morde, ne saggia la compattezza, lo aggira, ne trova il punto debole di penetrazione e finalmente entra; scompare nel buio da lui stesso creato; una forza che distrugge quel tanto che basti a far passare il suo agile corpo, a nutrire la sua voracità. Una esperienza terribile; ricostruita e in- ventata con una operazione plastica che, ormai da vario tempo vede impegnato nel suo lavoro, lo scultore Peschi. Le sue opere sono tutto un suggerirsi di incontri fra materia e luce, i buchi sono «il tarlo», sono l'annientamento della mate- ria che doveva essere erosa perché lì, in quel preciso punto, non un millimetro di più ne un millimetro di meno, non doveva esistere; doveva essere evidenziata una erosione; quella del tarlo, quello dello scalpello, della punta circolare di un attrezzo speciale; doveva essere distrutta una materia senza che si producesse l'annientamento di essa, il tutto con uno scopo ben preciso; quello di creare una forma nuova quale risultato del togliere e del lasciare sino al limite del possibile; ed in questi vuoti, in questi fori continui entra e «gioca» la luce in uno spazio prospettico sempre diverso; e le ombre si proiettano sulle pareti e creano nuove immagini, e quel tarlo che tutto divora e che pensa di distruggere ogni cosa, crea invece un nuovo modo di vita composto di nuova materia. IL VUOTO: scansione di volumi nello spazio, ansia di osservazione, di penetrazione e di compenetrazione, possibilità certa di modulazioni infinite, mai di programmazioni ripetitive, sicché la tematica strutturale sia sempre varia nella omogeneità del contenuto. E queste sculture si proiettano nello spazio con assoluta libertà perché rese vive dall'atmosfera che le circonda; STANNO immote come erme ma raccontano una storia umana, raccontano la storia della materia, del di- venire, di un presente che non è più tale per il solo fatto dello scorrer del tempo, perché il tarlo ancora non ha fatto in tempo a completare la loro distruzione.
Goffredo Binni
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Dal catalogo della mostra “Umberto Peschi - Modularmente – Anni 60” a cura di Enrico Crispolti – Macerata Centro storico – luglio-agosto 1990
LE ARCHITETTURE DI UMBERTO PESCHI
La "critica" potrebbe ormai aver detto tutto sull'opera dello scultore Umberto Peschi, e, a raccogliere le cento e cento pagine scritte su di lui ne uscirebbe una delle antologie più significative sulla scultura italiana di questo ultimo periodo. Senonché Peschi è ancora attivissimo, non solo, ma proiettato in quello strano fenomeno che è costituito dalla invenzione di forme nuove ritmicamente destinate a scandire lo spazio. E questo rinnovarsi - mai tradendo se stesso - costituisce interesse sommo e materia di studio. Non vogliamo qui ripetere quello che in più occasioni abbiamo scritto sull'opera del Peschi, ne estrapolare da testi altrui - taluni veramente salienti - definizioni e terminologie, quali le derivazioni futuriste, le amicizie con Balla, De Pero, Prampolini, Marinetti, Korompay ed altri. Peschi futurista è personaggio troppo noto e troppo presente in quelle che sono state le grandi mostre del movimento marinettiano; e così - lasciato il bagaglio del passato - diremo un qualcosa che ci appare interessante e intimamente connesso alla mostra di cui questo catalogo è punto di riferimento. Stavamo leggendo, sfogliando, decifrando "Vojage d'Orient" (carnets) di Le Corbusier, sei piccoli quaderni dalla copertina nera come si usava una volta ove il grande Jeanneret annotava le impressioni di viaggio non solo, ma tracciava gli appunti veri e reali di quel che vedeva o di quello che, egli solo, era in grado di vedere attraverso il non comune occhio dell'artista. La ristampa, dei Carnets (provengono dalla Fondazione Le Corbusier) è di una fedeltà impressionante e così accanto a schizzi, assonometrie, rilievi (sempre a mano libera e con tracce approssimate quanto a grafia) si rinvengono "idee", appunti non del visto o del visibile, ma di quello che dal visto e dal visibile scaturiva nella mente dell'artista; si attuava l'immediata fenomenologia della rielaborazione , della trasformazione, del può divenire, della "mutabilità" o della "mutazione" di un tema. Appunti, ideali progetti di un divenire. Non sappiamo come - l'amicizia e la conoscenza giocano a volte riferimenti che hanno del casuale - abbiamo pensato a Peschi come architetto di se stesso agli appunti, ai miniprogetti, alle "cose" nascoste, agli elaborati non completati, dimenticati o assorbiti in lavori di cui essi potevano semmai costituire l'embrione o l'idea primigenia. E poiché il Peschi è uno scultore che oggi e da gran tempo ignora la figura - e poiché anche l'architettura - quella vera per intenderci - è di per sé scultura, ecco che l'associazione di idee ha trovato la sua collocazione. Abbiamo detto: Peschi scultore (troppo facile - lo san tutti e del resto questa è la definizione generica) diciamo Peschi architetto, o meglio ancora l'opera di Peschi come architettura. Una nuova chiave di lettura specie ove si "estraggano" le sculture di Peschi dall'ambiente chiuso di una galleria o di un qualsiasi luogo e le collochino in un libero spazio, qualunque esso sia. Chi ha avuto la fortuna di vedere i "personaggi" di Moore a Firenze (Forte Belvedere) si sarà subito accorto di come l'inserimento di tali opere in un grande spazio aperto, al di fuori del "muro" di cinta che è dato sempre dall'ambiente di un interno, che esse mutavano "il contenuto", si inserivano, facevano parte del luogo, si "immedesimavano" (non confondevano) con il medesimo. Eppure erano certamente "personaggi" (strani, irreali, statici, inventati - umani o vicini all'umano o all'idea dell'umano, facilmente individuabile) che in quel luogo, e in quel modo divenivano anch'essi parte del paesaggio; architetture strane, massi caduti da un universo impossibile, fermati da mano possente e tenace. Peschi giunge alla scultura "architettura" per gradi, attraverso una evoluzione lenta, sempre meditata mai lasciata al caso, vincolata ad un rigorosissimo esame degli equilibri e della statica. Ormai lontano dalla dinamica futurista, lo spazio lo "interessa" e lo "prende", e la costruzione dei moduli (orizzontali-verticali) interrotti da "spazi atti a filtrare la luce"; le compenetrazioni, la possibilità della scomposizione, l'aprirsi di una scultura per "esaminare" quel che esiste dentro di essa, l'arrivo del tarlo che lascia dietro di sé "il relitto". Fasi salienti alle quali si giunge attraverso l'analisi temporale del ripetersi di un determinato "ritmo", del creare luogo di "pausa" il tutto in funzione di quella che deve essere la proiezione dell'opera nello spazio. Tentare di definire un siffatto modo di operare come adesione a forme di "strutturalismo o costruttivismo" è veramente arduo; che si senta un certo richiamo è forse anche possibile, ma che i canoni estetici, cui si faceva cenno siano superati è altrettanto vero . Non basta infatti la modularietà o ripetitività di un tema per inquadrare l'una forma di costruzione in questo o quel settore; la catalogazione è sempre difficile; semmai essa è tollerabile quando si parla di "scuola", quando il derivato da questo o quel "maestro" appare chiaro; nel caso di Peschi "l'invenzione" del modulo e la sua proiezione nello spazio è assolutamente spontanea non solamente creata come pausa finale e costante in chi era nato sotto il violento esprimersi del movimento futurista e che in particola- re aveva dettato pagine di scultura nell'aereo (pittura, scultura, disegno, ecc.), e quindi al dinamismo più aperto del movimento stesso.
Perché architettura; perché le opere di Peschi sono strutture che dell'architettura rispettano i canoni essenziali; "stanno", "si reggono", "consentono l'esser sole"; "vibrano di vita autonoma e soprattutto si impongono nello spazio circostante". Dal rigore formale dell'impianto solo alla luce è consentito un certo gioco a volte anche limitato; essa infatti deve esser filtrata dalla materia, non deve prenderla o soffocarla; la scultura così concepita non è un aquilone, ha bisogno solo di se stessa; il mondo esterno, l'ambiente costituiranno semmai il "locus" ove essa si insedierà, così come un edificio, così come una architettura. E se a volte "il relitto industriale", il frammento che ricorda un opificio o una macchina abbandonata, o una colonna rosa dal tempo, ciò costituirà prova che l'essenza dell'architettura peschiana trova nuova ragione di conferma. Il colosseo è "un monumento" e ciò prima di esser circo, prima di esser rudere; i fori, le terme, "sono monumenti"; eppure sono strutture "urbane" che il tempo "il tarlo" ha logorato in uno con l'incuria dell'uomo; il busto o la scultura erose dal tempo, dal lungo secolare soggiacere nel sottosuolo, son monumenti; il fregio del partenone è scultura e monumento e architettura. Abbiamo visto nascere opere ed opere di Peschi, abbiamo visto i suoi "appunti" e volutamente poniamo le virgolette in tale ultimo termine: Peschi non "fa" appunti, non "getta" su di un blocco (ricordare i Carnets di cui si parlava all'inizio di questo testo) lo "schizzo", il progetto; non "capta" graficamente quel che sente, non ha bisogno di "ricordare". Il progetto è dentro di lui, la realizzazione chiederà solo attenta maturazione e questa maturazione è "manuale", è quella che deriva dal progetto del piccolo formato; preciso idoneo da solo a reggere e dimostrare "decisamente" (la parola grazia, non è assolutamente usabile) un risultato finale; gli elementi compositivi del progetto sono tutti misurati uno ad uno, il calibro, il peso, i volumi; non esiste differenza se non "nella quantità; Peschi realizza con rapidità di veduta quello che per l'architetto è l'elaborato finale; la piccola casa, il piccolo grattacielo; e mentre questo elaborato sarà chiamato e noto a tutti come "modellino", in Peschi ciò non potrà dirsi; sarà sempre una scultura finita; una stupenda fotografia che potrà divenire anche gigantografia, ma sarà valida anche così, nel formato originale; l'ingrandimento servirà alla cosiddetta "monumentalità". Architettura iniziale concepita e realizzata in quanto atta a vivere indipendentemente dal suo volume. E certamente lo "sviluppo" dimensionale di essa lascerà intatta l'impronta, lascerà che si scopra la mano, la fonte, la leggibilità. Legno, ferro; materie che solo all'apparenza sono duttili e che invece richiedono "un concetto" di impiego pensato e ragionato; né può prescindere dal fattore della presenza dell'artista, dall'occhio che vede il rapporto intrinseco fra l'un elemento e l'altro anche là dove un ripensamento potrebbe apparire come tentazione ad un più facile realizzo. Ma altro convalida l'architettura; nessun architetto demolirebbe un fabbricato progettato in fase di realizzo; semmai a volte una leggera variazione sarà apportata (non parliamo di esigenze burocratiche) per l'impiego più razionale di un mezzo o la funzionalità dell'opera; anche l'architetto (parliamo dell'uomo che inventa e certamente non di chi copia) crea scultura, adotta moduli, impiega mezzi tecnici, sente che l'opera finita dovrà restare, dovrà anche esser vissuta. Ebbene in queste sculture di Peschi, in queste opere ove il concetto di "sacralità" - in senso laico - è presente, l'uomo vive, e direi di più è obbligato a usare, a girare attorno ad esso, a "scattare" fotografie poiché la "luce" creerà voluti effetti. E queste architetture che non definiamo eterne (rifuggiamo in campo umano da tale termine) "staranno" come monumenti di un periodo, di un certo modo di sentire. E quando in una zona di Macerata verrà istallato (è in corso al riguardo una nuova operazione di arredo urbano) un nuovo monumento di Peschi ebbene anche esso sarà architettura: e tale termine che abbiamo inteso usare per la prima volta apparirà vero come non mai; tre croci, un golgota (e qui il concetto di eterno è pienamente valido), una nuova scultura ove le architetture peschiane compaiono in tutta la loro evidenza. Ma di ciò si parlerà altrove. Dunque Peschi si scopre e rivela il suo inconscio in quella che è la progettazione; il fare, l'edificare, il costruire, il porre; sembrano concetti elementari ed in definitiva lo sono, sol che essi hanno come suol dirsi la presenza di un "quinto" elemento, quello cioè che deriva dall'esser posti insieme dalle mani di un artista, la cui concezione all'ordine delle cose, e dell'accumulo delle idee trova dimensione diversa. Prima che al risultato il Peschi mira all'essenza di quello che dovrà restare; Peschi non crede all'eternità della sua opera così come non vi ha mai creduto ogni grande artista; il suo credo è quello del dire un qualcosa di valido, poi dopo che questo credo è stato dettato, l'opera è semplicemente per chi vorrà godere di essa, per chi vorrà ricordarla. Lo spazio urbano non lo interessa; è consapevole che deve prescindere da esso in quanto "la committenza" vincolerebbe il suo modo espressivo; altra riprova dell'architettura; un vero architetto deve esser lasciato libero di dire; solo l'ambiente può vincolarlo; la realizzazione sarà da sola "risultato", la geometria con le regole che impongono precisione e rigore, vien solo violata per creare con essa su di essa e al di sopra di essa l'effetto o gli effetti cromatici che la luce deve dare; una nuova forma di classicismo cui vincolare volumi di immediata comprensione alieni da manierismi facili e formali; mai rivisitazioni e del resto a ben pensare Peschi è un autonomo; semmai è da lui che si potrà apprendere un qualcosa. Certamente le lezioni dei grandi del razionalismo e del costruttivismo non escluso il suprematismo han fatto scuola; ma la loro assimilazione nel caso in esame è altra; matrice futurista non poteva consentire l'avvicinamento di due modi di sentire diversi; ma un conto è il non sentire, altro quello di non vedere e di non comprendere; sarebbero inutili gli studi e le ricerche. Peschi uomo colto ha inventato un qualcosa che è suo, solamente suo, e oggi sviluppa opere che chiamerà sempre sculture e che invece sono anche architetture. Dunque questa mostra offre lo "sviluppo" di appunti - nel senso sopra individuato - e raggiunge lo scopo che avevamo esposto, quello cioè della assoluta uniformità del "prodotto" (inteso come risultato finale) con l'idea primigenia. Perché tale uniformità? Perché assoluta mancanza di ulteriore intervento? Ci appare il "circolo vizioso"; un progetto Peschi non contiene il "germe" di quello che sarà l'opera realizzanda, è sempre un progetto "finito", sempre di ampio respiro, al quale non si può aggiungere o togliere alcunché. Questo fenomeno che chiameremo "decisionalità", assume un valore storico ben definito e determinato; esso infatti rappresenta pienamente la concretizzazione di una idea costruttiva ben radicata e formata in tutti i suoi elementi e nella mente dell'artista. Un grattacielo Pirelli, una Torre Velasca, una mole Antonelliana, una Cupola di Michelangiolo, non sarebbero tali se il progetto iniziale avesse subìto "tentennamenti" "ripensamenti" od altro. Ecco il motivo per cui insistiamo e parliamo di architettura come scultura e di cons2eguenza di scultura come architettura.
Goffredo Binni
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Dal catalogo della mostra I segni della memoria – Omaggio di 150 artisti al Maestro Umberto Peschi, Pollenza, dicembre 1993-gennaio 1994
Ricordo di Umberto Peschi
Proprio in questi giorni, lavorando attorno a taluni testi leopardiani, mi è venuto sotto gli occhi questo brano o pensiero dello Zibaldone: "Entrate in un giardino di piante, di erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per .." arrivarvi... . Il bosco, il legno, la materia prima delle opere di Umberto Peschi che mi fu amico come altri mai. Ebbene "Umberto" che così sempre lo chiamerò, non aveva mai letto questo brano del Leopardi, eppure -forza del pensiero -era arrivato negli ultimi lustri della sua vita a concetto analogo. Era giunta l'epoca del "tarlo"; lo scavare il legno in mille fori passanti, a volte intercomunicanti fra loro, scavare "dentro" alla ricerca dell'essenza, ed aggiungo io, alla ricerca di quell'io interiore che tutte le cose hanno. Vedi, mi diceva, a questo piccolo tronco squadrato di tiglio o di acetà, i suoi legni preferiti, ho dato vita; guarda come attraverso questi fori, che sono anche occhi, entra la luce, e se giri la scultura vedrai altri effetti, sempre la luce; la luce che entrava, che svelava pareti nascoste, e con il gioco continuo delle ombre le tornava a celare. Il Tarlo, tanto amato che dissolve la materia, giunge ad annientarla; è la fine; così è quella dell'uomo: nessuno si accorge che il tarlo sta lavorando entro di noi sin da quando siamo nati. Oggi Umberto non è più; è giù sotto terra e sarà raggiunto più facilmente da quel tarlo che lo dissolverà; quel suo amico di molti anni, un amico che egli aveva guidato perche componesse sculture bellissime. La scultura è un fatto tattile; la si può osservare, girarle attorno, ma per sentirla bisogna "toccarla" con le mani; palparla; penetrare negli anfratti, lisciarla e ciò tanto più quando essa è di materia lignea; vedete cari amici, ogni altro metallo anche l'acciaio, sente quel lieve grasso della mano che lo tocca; va pulito subito con uno straccio morbido: il legno assorbe, acquista una sua patina, si lucida, si antichizza; acquista nobiltà. Diviene sempre più bello; questo Umberto lo sapeva ed a veder girare nelle sue mani "forti, dure, martello e sgorbia", una piccola scultura si aveva l'impressione che essa si frantumasse; solo una impressione poiche Umberto aveva il culto del bello e del buono. Sì, Umberto era buono, un carattere di ferro, ma di una mitezza estrema; non ha fatto mai male ad alcuno; ha aiutato i giovani e quella casa in via Lauro Rossi, quelle scale ripide, a scalini diseguali era come una fortezza medievale ove i giovani dell'Accademia e quelli dell'Istituto d'Arte avevano costante ospitalità; e Umberto non dimenticava di essere stato insegnante e ci diveniva ogni giorno di più, amico dei giovani, partecipava ai loro lavori e spesso esponeva alle loro "prime"; per dare una soddisfazione alla nuova generazione sulla quale si doveva aver fiducia; era un uomo "antico"; se dava la mano si poteva esser tranquilli che non avrebbe mai "tradito"; ed anche quella domenica in cui, ormai da sempre, prima con il fratello e poi da solo, ogni quindici giorni, era mio carissimo ospite per l'intero giorno, ci lasciammo con una forte stretta di mano. Poi l'avrei rivisto in coma; un qualcosa di me stava scomparendo. Ho pianto come non ci si deve vergognare; spariva un uomo da tutti amato; non negava un piacere, sia che a chiamarlo fosse un parroco che una festa dell'Unità; per lui contava l'umanità, la gioia di stare in mezzo alla gente. Queste sono solo poche parole per ricordare a chi le sente e a chi oggi su gentile richiesta di Alvaro Valentini, le legge, cosa possa significare l'amicizia. Un giorno mi disse "ma sai che tutte le sere prima di coricarmi recito una preghiera?"; l'altro suo grande amico Del Bianco ebbe la stessa confessione. Peschi ha amato la vita, ha amato sempre la donna; il suo stato di voluto celibato era in funzione della sua innata natura di essere libero, indisciplinato con se stesso, corretto sino all'eccesso con gli amici. E di più non posso ne voglio dire; auguro ad Umberto che trovi nell'aldilà una vita migliore di questa che ha vissuto fra noi. Grazie.
13 novembre 1993
Goffredo Binni
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Scritto per il catalogo della mostra al Convitto Nazionale di Macerata (giugno 1996), riproposto a Montecosaro e Smerillo
La vitalità di una amicizia
Carissimo Umberto.
Gli amici del "Centro Culturale Alberto ed Umberto Peschi" mi hanno pregato di scrivere qualcosa su di te, ma avendo tante e tante volte parlato della tua arte ho deciso di scriverti una lettera; certamente la leggerai sotto quei pochi metri di terra che ricoprono le tue spoglie mortali, sarai in grado di.... comprenderla.
Ed allora.... nel ricordo della nostra amicizia che risale a tanti anni addietro (certamente più di cinquanta) ti dirò: quando ci lasciammo nell'ultima domenica dopo una ennesima partita a carte (come ti gustava quel giro) mi sollecitasti il tuo testamento ed io ti dissi: è tutto pronto, vieni domani; ma il tuo domani era già segnato da un maledetto destino; una caduta infame e poi dopo giorni di sofferenze la fine; i tuoi beni non poterono essere acquisiti dal Comune di Macerata, ché non ripren¬desti più quella lucidità o quel minuto di intervallo che avrebbe consentito una firma valida: e...quando sono rientrato nella tua casa in piazzetta Lauro Rossi, in quel portone che aveva sempre la chiave sulla toppa (la tua fiducia nel prossimo era tanta e del resto nessuno poteva aver motivo di rancore nei tuoi confron¬ti) ho sentito un colpo al cuore; quasi un timore; eppure entram¬bi avevamo fatto la guerra; ma il ritoccare le tue sculture, il soppesarle, il catalogarle, è stato un vero sacrificio anche se questo incarico lo accettai come atto di amore; preferivo essere io l'ultimo ad esaminare, a valutare il tuo lavoro, le tue stu¬pende cose; le chiamo proprio così "cose"; che infatti avevi l'abitudine di dimenticare, di ignorare di distaccarti dall'opera ogni volta che essa era stata da te finita; per te una scultura si trasformava in un "oggetto del passato"; già pensavi al nuovo.
E questi amici che oggi si sono ritrovati senza altro scopo che quello di tener viva la tua memoria - meglio sarebbe dire la tua presenza - sono tuoi e ricordati che l'amicizia, quella vera e disinteressata, non ha termini di paragone.
Ho poche cose di te; ma fra le più care una sgorbia o per chia¬marla con le tue parole un "ferro"; "ho portato ad arrotare i ferri"; la portasti a casa mia per togliere una "scheggetta", aggiustare o più ancora rifinire un piccolo particolare che avevi notato.
Un ferro del tuo "mestiere", dal manico logoro che ha il sapore delle tue mani forti, capaci di carezzare la testa di un bambino, il seno di una donna; già i tuoi amori, la tua apparente "durez¬za" che nascondeva una sentimentalità intensa; l'amore per i mici, cui portavi leccornie: il gatto "felino" pronto all'attacco ma sempre innamorato; il gatto che ama la casa, come tu amavi quel "nido" ove il profano doveva stare attento al dove e come avrebbe posato i piedi; e poi la "grata" a maglie larghe, le donne che invitavi ad andare avanti per ammirarne le gambe; e, sarà stato il caso, hai sempre trovato donne "belle", giovani, agili, che ti hanno amato. E gli studenti che venivano a trovar¬ti, e la tua assidua partecipazione alle mostre con i più giova¬ni, con i ragazzi; avevi l'intuito di quello che sarebbe stato il tuo futuro; li incoraggiavi con la tua presenza; facevi in modo che essi potessero dire "alla mia mostra erano presenti le opere di Peschi" e queste opere nobilitavano la mostra, facevano si che il pubblico accorresse. Sappi che pochi giorni addietro ho trovato in una libreria antiquaria il catalogo della Quadriennale nella quale eri stato ammesso con l'opera "Pallavolo II"; il tuo regalo per le mie nozze. Poi le canzoni popolari cantate insieme a me; a volte un pochino "osé", ma allegre divertenti come il popolo sa inventare; troppi ricordi comuni; i tuoi pudori son frutto di ragionamento; questo è male non si può fare; era un tuo credo, così come quello di ogni sera quando ti segnavi con la "Croce", anche se a messa non andavi; Caro Umberto nella vita si è stati tutti un pochino "zingari" ma l'essenziale è aver avuto un "animo" come il tuo; credere nel prossimo, nella bontà del vicino di casa, nel saper carezzare un bambino, nella vita.
Poi... stattene pur sereno e tranquillo sotto quella croce che tu stesso scolpisti, una croce erosa dal "Tarlo"; un simbolo di sofferenza che ricorda all'uomo l'"Eterno" e che tu hai interpre¬tato perché in te era anche "fede".
Per oggi ti saluto; un arrivederci a presto.
Ciao.
Goffredo
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Testimonianza per la rivista “Piccole Città” – edizione speciale dedicata a Peschi
Domenica 27 settembre 1992 ore 24: l'amico Umberto lascia la mia casa ove aveva consumato quella che per lui e per me è stata "l'ultima cena": ci si doveva vedere il giorno dopo, avevamo perfezionato lo schema dell'atto di donazione dell'immobile di sua proprietà e della sua raccolta di opere d'arte, nonché la scheda testamentaria che avrebbe dovuto completare l'atto di donazione: il tutto a favore del Comune di Macerata e della Pinacoteca: qualche piccolo legato a favore di amici.
Nel testamento dovevo essere il suo esecutore testamentario: quando ci salutammo dopo l'ennesima partita a carte mi disse testualmente che aveva fretta di chiudere quella che ormai era una decisione maturata e della quale avevo ovviamente parlato con il Sindaco il quale, per evitarmi la noia di un'attesa presso gli uffici tecnici erariali (si era nei giorni in cui ogni contri¬buente era all'affannosa ricerca dei dati catastali per pagare l'imposta straordinaria sugli immobili) si era fatto carico di inviarmi in studio i certificati catastali onde il tutto si potesse attuare: lo stesso Sindaco che fra l'altro è mio amico mi disse che avrebbe avuto bisogno dell'assenso del Consiglio comu¬nale al che io replicai che egli avrebbe potuto ben aderire all'atto di donazione subordinando il consenso definitivo al nulla osta o ratifica del Consiglio stesso.
Peschi aveva fretta non perché si sentisse male, ma perché questo era il suo volere e la sua decisione e come al solito nella lunga dimestichezza con me pretendeva l'immediatezza.
Da quando Sora Pasqualina mamma di Umberto e di Alberto morì , i fratelli Peschi erano ogni quindici giorni ospiti di casa mia mattina e sera: una consuetudine di affetti tale per cui posso in piena coscienza dire di conoscere tutti i particolari e tutte le avventure sacre e profane di questo uomo: proprio quella domeni¬ca, quella ultima domenica, parlando della disgrazia avuta da un amico e della gioia che costui mi esternò quando il figlio era ormai fuori pericolo, il tutto per telefono, a me sorse spontanea la frase "In questo caso bisogna ringraziare Gesù Cristo" e l'amico lontano, grande scrittore e poeta mi rispose "Questa volta proprio sì "; Umberto aggiunse "Quando Gesù Cristo vuole i miracoli avvengono".
Per me Peschi morì subito il giorno dopo di quella domenica quando fu ritrovato in terra dall'altro amico Del Bianco: poi una lunga agonia con alti e bassi: mi ha riconosciuto nelle varie visite non posso dirlo, però quando dopo il suo decesso da altri amici mi venne chiesto se fosse stato il caso di fare un funerale religioso io non solo diedi -posto che ve ne fosse stato bisogno- il nulla osta, ma il mio pieno assenso.
Tulli, amico, ebbe raccontata da me la vicenda e disse che avevo fatto bene; in definitiva un requiem va sempre recitato e Peschi questo requiem lo meritava perché soprattutto era un uomo puro, vergine se così può dirsi, nella spontaneità dei suoi gesti e del suo pensare; reazionario come può essere un figlio del popolo anche quando ha raggiunto una certa agiatezza; caritatevole in maniera assolutamente francescana, amante della vita, amante dei giovani e dei fanciulli: una piccola chioccia di Piazza Lauro Rossi: una porta con la chiave sulla toppa, una fiducia immensa nel prossimo anche nei confronti di chi non lo avrebbe meritato: Peschi artista uomo e per me forse uno degli unici amici.
Per lui non mi vergogno di aver pianto e male farebbero coloro che si volessero appropriare dell'immagine, della figura di questo uomo che può veramente dirsi una gloria maceratese e italiana. Forse questo è un ricordo emotivo: ma ho scritto tanto su Peschi e sulla sua arte e non piace a me ricordare i saggi, i testi, le conferenze: esse armai appartengono a Peschi e Peschi purtroppo non è più .
Goffredo Binni
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UN SESSANTENNIO DI VITA ARTISTICA MACERATESE
UMBERTO PESCHI
Qui il problema diviene veramente arduo perché siamo troppo amici di questo grande artista per poterne parlare con tutta serenità. Ed allora dimentichiamo, posto che ci si riesca, questo sentimento per dire subito che Peschi, nel gruppo Boccioni,era l'uomo di punta della scultura futurista.
Un uomo di punta che aveva fatto le ossa alla scuola e che aveva scelto come materia prima da plasmare stiamo commettendo volutamente un grande errore terminologico -il legno.
Il legno si scolpisce non si plasma, al legno come alla pietra si toglie il di più e una volta tolto quello che non serve resta l'immagine.
Ora quando si pensi, sia pure fugacemente, a quella che era la prima fonte di ispirazione del futurismo, per dirla in breve dinamicità, luce, velocità, è chiaro che tale essenza può essere anche casualmente risolta manipolando in un certo modo un blocco di creta.
Il legno resta li immoto e attende pazientemente la mano che tolga il superfluo e questo superfluo non può essere tolto, se non con grande calma e grande oculatezza.
Come poteva un uomo abituato allento operare della sgorbia, dello scalpello, al piccolo colpo impresso di volta in volta in un gruppo composto di gente «furiosa» -in senso buono -gente che si agitava e che voleva la conquista del mondo e il capovolgimento di un certo modo di pensare ?
La tenacia del «marghegiano» come direbbe, o meglio avrebbe detto, Bartolini.
Peschi comprese subito quello che dalle sue mani poteva uscire e se il dinamismo era rapidità del tratto, ebbene questo dinamismo egli lo trasfuse nel legno e ne ricavò sculture che oggi sono presenti nei più grandi musei.
Era ancora lontano il periodo del tarlo e così vediamo Peschi guidare la mano in quelle sculture che furono «11 ritratto di Marinetti»,o meglio «Aeroritratto di Marinetti», «Potenza simultanea», «Aeroritratto d'aviere», «Paracadutista», «Il duce».
Ma lo troviamo pure in quelle stupende caricature fatte ad Alberto Peschi, a Marinetti, a Sabalich,
Abbiamo detto caricature, ma in effetti erano ritratti sintetici in piena coerenza con lo stile che Peschi adottava per le sue sculture.
Fu uno dei pochi futuristi maceratesi presenti alla Biennale di Venezia.
Visse lunghi anni a Roma e tra una guerra e l'altra -ben quindici anni di servizio militare -proseguì sempre intenso il suo sodalizio di gruppo.
Vero amico di Tano ha conservato di lui una corrispondenza degna di un archivio storico.
A Roma diciamolo francamente, spesso ha sofferto anche la fame, ma non ha mollato mai, ne si è piegato a quei compromessi che tanti pupazzettari dell'epoca accettavano ben volentieri pur di sbarcare il lunario.
Polemico con Monachesi, non ne accettava l'irruenza in quanto la sua educazione formale era tale da impedirgli certi atteggiamenti che lo avrebbero portato ancora più lontano da quel che egli è oggi.
Amò la scuola perché aveva compreso che dalla scuola possono uscire le nuove leve e i nuovi artisti.
Fu sempre un esteta del bello, facile all'entusiasmo ed anche nei periodi più duri della sua carriera non solo non tradiva mai l'amico, ma aiutava chiunque a lui si fosse avvicinato.
Questa generosità lo aveva reso indispensabile nell'irruento e movimentato gruppo Boccioni: del resto la scultura di Peschi si imponeva e Marinetti non solo lo stimò, ma gli fu amico così come, sempre Marinetti, divenne amico del fratello Alberto.
Altro personaggio di quei tempi. La coppia Peschi costituiva perciò un punto di riferimento e se una differenza fra i due esisteva essa era data solo dal diverso carattere per cui all'educazione di Umberto sovrastava quella di Alberto, in quanto permeata anche da uno spirito di delicatezza estrema nei confronti dei colleghi.
Alberto e Umberto vissero così in una specie di simbiosi e nonostante le loro separazioni, dovute sempre a quella maledetta guerra che si portava via di volta in volta le giovani forze italiane, questa si cementava sempre di più ad ogni incontro con i racconti delle esperienze fatte.
Una notte Umberto era a Roma e, non ricordiamo bene, ne abbiamo voluto chiederlo nuovamente a lui, si trovò senza alloggio. Invero non fu solo una notte: era la vita grama degli artisti di un tempo ed allora la prima chiesa aperta lo vide contrito in un banco a dormire con lui era Tano; altra volta in uno di quegli stanzoni che raccoglievano, in uno pseudo dormitorio, quelli che oggi sarebbero chiamati barboni, il nostro Peschi ebbe come letto una corda: non che si potesse dormire su una corda, ma la corda era tesa all'altezza della testa di un uomo seduto su una panca; si dormiva con la corda avanti al viso e le mani appoggiate su di essa e sopra le mani la testa.
Una forza di carattere quale raramente è data rinvenire.
Eppure il nostro uomo non si dava per vinto e seguitava a lavorare e conobbe Prampolini e Depero, e conobbe Dottori e conobbe Balla: era giovane allora ed acquistò la loro amicizia.
E con i sacrifici venne la gloria; le prime esposizioni, le commissioni, la Biennale di Venezia e le tante infinite partecipazioni alle più significative mostre Italiane e straniere; ma il nostro Peschi non ha mai sentito quel fenomeno che vede «l'arrivato», guardare dall'alto in basso il giovane, chiunque esso fosse, anche lo studente ai primi rudimenti dell'arte.
E cosi lo troviamo presente anche nelle mostre ove si cimentano i più giovani, lieto di esser con loro non perché si dica che egli è il più bravo, ma solo ed esclusivamente per dar coraggio a quanti iniziano il cosiddetto mestiere; ed anche oggi la sua casa stupenda per quella che è la vera architettura del popolo ( quello vero, autentico -non quello sfruttato da questo o quel partito ), vede giovani salire scale erte, ripide, in pietra o legno; e la porta è sempre aperta, con la chiave sulla toppa; fiducia cieca nella bontà altrui e nella onestà che deve esistere in ogni uomo; e Peschi aiuta, corregge elabora con il «giovane» amico che è andato a trovarlo, e il rapporto diventa amicizia sana quella del dare senza nulla pretendere.
Peschi artista, Peschi uomo; tale era e tale è restato anche oggi che non ha più con sé il fratello Alberto «Iu moro».
Altro artista validissimo; non solo fratello di Umberto, ma amico del medesimo, nume tutelare.
È cosa ardua parlare di amici che il destino ha strappato alla vita; mentre scriviamo anche Buldorini «Mimi», se ne è andato.
Un uomo di cui conserviamo gelosamente registrata la voce, e del quale parleremo nelle pagine che seguono.
Ma non vogliamo che il racconto prenda piega «romantica», perché questi personaggi -è il bello dell'arte -non possono essere che presenti.
E cosi due righe per Alberto Peschi; due righe, diciamo, in quanto non vogliamo ripetere quello detto per il fratello. I discorsi infatti si equivarrebbero e forse sarebbe stato opportuno parlare insieme dei due; ma non ci è piaciuta l'idea di avere un paragrafo che avesse come titolo «i fratelli Peschi».
Ed eccoci ad Alberto Peschi. Marinetti quando lo conobbe presso la sede del Gruppo Boccioni, inventò per lui un nome d'arte; voleva con ciò distinguerlo dal fratello Umberto.
Chiamò il nostro «Alberto delle Pesche». Un gioco di fantasia che sapeva anche di Giappone, di ramo, di pesco fiorito; ma Alberto non amò mai chiamarsi con quella specie di pseudonimo, anche se coniato dal padre del futurismo.
Seguitò a chiamarsi Alberto e poiché era scuro di carnagione, gli amici quelli cari, il fratello, lo chiamavano familiarmente «Iu moro». Se si dovesse fare un paragone fra i due fratelli, dovremmo dire subito che, a parte la bontà ed onestà che li accomunava, Alberto aveva animo più gentile, ed osservava un rigore formale anche al tratto che non poteva assolutamente essere ignorato; forse meno «artista», amava meno la «boheme», era più ligio al rispetto delle cosiddette convenzioni sociali.
Eppure anche se i caratteri erano diversi i fratelli furono veramente un unico corpo.
La comune vicenda dell'arte, il colpo d'occhio clinico che faceva loro discernere l'opera valida dalla «raffazzonatura», aveva portato i due a raggiungere quell'equilibrio e quella forza di espressione da renderli indispensabili e quindi «chiamati» perché la loro presenza fosse costante.
Alberto disegnava in maniera superba, amico anche lui di Tano contribuì a cementare, posto che fosse stato necessario, il sodalizio del gruppo dei futuristi Maceratesi; partecipò alle più interessanti mostre, fu con gli altri amici del gruppo uno dei primi aeropittori italiani. Poi alla serenità dell'impiego seguì l'abbandono del pennello; ricordiamo che un giorno, parlando di quell'evento che fu costituito dalle «cravatte di latta», ne ricostruì per noi alcune in cartoncino; si sarebbe forse dovuta farne edizione particolare; è fra i nostri ricordi più cari; cartoncini a forma di cravatta, di aereoplanino, preciso nel taglio, aggiunse alla confezione un colletto pure esso in cartoncino; un colletto vero, su cui si agganciavano le «cravatte», disegnate e tagliate dal «grande» Alberto.
Ricordi di una memoria che ancora non ci tradisce e che consente l'evolversi di un racconto il quale a volte assume il tono di una conversazione; non con chi avrà la «bontà» di leggerci (frase fatta che odora di ottocento pieno ), ma con questi uomini che conoscemmo e che frequentammo; e francamente è una gran bella cosa tornare con essi.
Goffredo Binni