Scritti di Umberto Peschi / Dichiarazione di poetica - Associazione Peschi

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Scritti di Umberto Peschi / Dichiarazione di poetica

Umberto Peschi
 

di Umberto Peschi

Io penso che un vero scultore, come qualunque altro artista del resto, sia già  tale quando si affaccia alla vita lavorativa; per un certo verso egli ha già  pronto il bagaglio delle cose di dire.
Il tempo, lo studio, la riflessione, gli consentiranno di aggiustare l'uso delle sue idee, di migliorarsi nell'espressione, di organizzare meglio la propria vita artistica, ma non di nascere come vero scultore se non lo è  già. Si potrà  semmai discutere del suo valore in assoluto, non del suo diritto all'uso dello scalpello.
Quando frequentavo la Scuola d'Arte, tanti anni fa qui a Macerata, già  immaginavo come sarebbe andata a finire, sentivo dentro di me questo fervore, questa smania di fare, tutto ruotava in direzione della strada che avrei dovuto percorrere per tutto il tempo che avevo davanti. E così, anno dopo anno, ho vissuto in compagnia dei miei pensieri, schivando il dolce tepore del benessere e cercando sempre di non farmi irretire dal colore dell'oro; immedesimandomi in un mondo -quello dell'arte- nel quale ancora oggi continuo a credere.
Se poi il mio frenetico lavoro abbia lasciato qualche traccia di rilievo, non tocca a me dirlo.
Io posso soltanto garantire di aver sempre restituito al mio mondo tutto quello che di volta in volta mi capitava di possede¬re, così  come fanno i sacerdoti con la loro religione, quando sono di vera fede. Dimenticavo di dire che un vero artista non può  subire dei condizionamenti, il suo diritto alla libertà  non tollera disattenzioni. Per questo ho sempre cercato di tenermi fuori da certi giri, da certi cerche che se ti prendono non ne esci più .
Di fronte alla tua libertà  non ci sono critici che tengano; si, puoi ascoltarli, puoi seguirli in certi momenti, ti puoi sentire qualche volta anche solleticato da un giudizio lusinghiero, ma poi liberati, per carità!, e riprendi a camminare da solo.
Apprezzo i critici quando fanno il loro mestiere, li ammiro un po' meno  quando pretendono di fare il mio; se poi incominciano a chiedere obbedienza, magari promettendo lanci clamorosi o altri strani affari, allora il discorso non mi interessa più .
In questo campo, particolarmente, le ibride commistioni sono sempre da scartare; la chiarezza dei rapporti, in fondo, resta sempre la cosa migliore; a ciascuno il suo compito: da una parte l'artista che crea, dall'altra il critico che giudica.
Dicevo prima del piacere che l'artista può  provare quando ai suoi esordi qualcuno si accorge di lui; io questa sensazione la ebbi a Venezia, alla mia prima Biennale, quando un critico, in un mare di artisti, pescò  il mio nome e quello di Crali scrivendo a lungo e con molto favore di noi. La cosa mi fu utile perché  capii che la strada da poco imboccata era quella buona e che la mia scelta valeva bene il costo dei sacrifici da compiere per sostenerla. Forse quest'ultima affermazione non mancherà  di meravigliarvi, ma io debbo confessare con tutta franchezza di essere sempre stato dell'idea che se nella vita si vuol fare bene una cosa, occorre dedicarvisi totalmente, sino a confinare tutto il resto entro i margini ristretti dell'indispensabilità .

*   *   *

A proposito di sacrifici, mi tornano alla mente gli anni romani che dagli inizi del 1936 vissi in comunione di intenti con Bruno Tano. Furono anni ferocemente contesi alla povertà , ma densi di grandi suggestioni per la spinta esercitata dalle nostre giovani¬li speranze che ci aiutavano a discoprire sempre nuovi orizzonti. Imparai a conoscere cosa fosse la vera amicizia attraverso la interiore ricchezza di un uomo dalle straordinarie doti di umanità , profondamente colto e in grado di esprimersi artisticamente ad altissimi livelli. Era capace di affrontare qualsiasi argomen¬to, anche il più  difficile, con la stessa disinvolta semplicità  di quando scherzando mi comunicava che non c'era nulla da mettere sulla tavola per il pasto del mezzogiorno. Roma era difficile in quegli anni e per resistere occorreva anche soffrire la fame, cosa che per la verità  imparammo assai bene.
Un vero, grande artista, bruno Tano - che di lì  a qualche anno sarebbe morto tra le sofferenze - verso il quale mi considero in debito di alcune idee relative agli autentici ed assoluti valori dell'arte e del quale siamo un po' tutti debitori, visto che le sue opere, seppure poche a causa di una brevissima esistenza, meriterebbero ben altra attenzione.
Voglio ora parlare dell'incontro che ebbi a Venezia in occasione di una Biennale -doveva essere l'anno 1937 o 1938- nella sala delle conferenze del Danieli, dove, dopo la presentazione di Marinetti, che avevo già  conosciuto in altra occasione, stava parlando un uomo di cui riuscivo a vedere soltanto la testa, una cosa meravigliosa con quei capelli bianchi a far da cornice e gli occhi vivissimi a catturare l'uditorio, io lo immaginavo alto e grosso per la forza polemica con cui si esprimeva e per la terribile mimica con cui accompagnava le sue parole. Non nascondo che provai una certa delusione quando si alzò  e vidi davanti a me un omino attorno al metro e cinquanta che faticava a camminare perché  afflitto da una fastidiosa zoppia: l'uomo era Enrico Prampolini. Bastò  un attimo tuttavia  perché  fossi di nuovo prigioniero del suo fascino e si instaurasse tra di noi uno stato di simpatia che il tempo avrebbe sempre più  consolidato. Forse perché  lui era così  raffinato nelle sue simbologie ed io così  schiettamente rozzo nelle mie espressioni.
Frequentai il suo studio e la sua casa di Roma, conobbi anche la moglie che poi, dopo la morte dell'artista, sarebbe diventata la moglie di Capogrossi; mi colpiva il modo semplice con cui adoperava i pennelli anche se rimaneva  stranamente legato a formule per me allora incomprensibili: pittura solare, pittura cosmica, pittura metafisica, con cui dava vita a fantastiche esplosioni di colore. Mi colpiva la straordinaria bellezza del quadro, ma non mi riusciva di capirne il senso. Il tempo e la pazienza di Prampolini mi consentirono però  di assorbire bene quei valori.
Aiutavo spesso Prampolini -che, a causa del suo difetto fisico, si destreggiava assai male nello studio- a fare pacchetti, ad imballare quadri da spedire a Parigi, dove spesso si recava; e lui che di solito tendeva a chiudersi in se stesso, per la qual cosa -certo ingiustamente- non era molto gradito ai pittori romani di quei tempi, coglieva le occasioni per parlare a lungo con me sino ad affidarmi i suoi più  riposti pensieri.
Io ne approfittavo per fargli un sacco di domande, anche ingenue, e lui rideva divertito della mia semplicità ; mi rispondeva sempre con grande simpatia aiutandomi a capire il senso dei suoi quadri, non esclusi quelli di cui era gelosissimo e che teneva ben lonta¬ni dalla vista dei soliti frequentatori dello studio.
Il frenetico desiderio di arrivare a tutti i costi lo assillava in forma quasi maniacale, e lavorava, lavorava di continuo per non perdere, diceva lui, nessun appuntamento. Allora ero io a divertirmi e ridendo gli rispondevo che se nella vita uno è  convinto delle proprie idee e trova, con semplicità , la forza di svilupparle, non c'è  pericolo di perdere nessun appuntamento. Il tempo difenderà  le tue ragioni e dirà  poi del valore delle tue creazioni.
Conservo ancora le lettere che dopo il 1945 periodicamente  mi indirizzava qui a Macerata; in una di esse mi chiedeva di fare un lavoro con lui offrendomi anche la possibilità  di mettere la mia firma accanto alla sua. La richiesta -come potrei nasconderlo- mi procurò  un immenso piacere perché  in modo evidente testimoniava che la stima e l'affetto per me si erano impadroniti dell'animo di Prampolini.

*  *  *

Con la consueta tranquillità, mi accingo a varcare la soglia dei settanta dichiarandomi soddisfatto di quanto mi è  stato riservato dalla vita. Non ho ulteriori aspirazioni, così  come credo di non aver mai cercato traguardi diversi da quelli di cui vi ho parla¬to. Il registro dei miei conti presenta le colonne del dare e dell'avere in perfetta parità  ed io non voglio per nulla rimettere in discussione il risultato acquisito. Anzi, se come nei sogni mi fosse consentito di riprendere la strada dall'inizio, rifarei punto per punto tutto quello che  ho fatto fino ad oggi; meno la guerra naturalmente, perché  la guerra è  inutilmente dannosa: essa è  soltanto capace di prendere la nostra vita lasciandosi il nulla alle spalle.
Per essere più  chiaro potrei dire che l'idea della guerra è  come il tarlo distruttore che scava senza riposo inimmaginabili caver¬ne nel legno più  duro e dentro le nostre coscienze. Ma l'uomo è  capace di riscattarsi, se vuole, rinunciando ad alcune sue perfi¬de attività  per trasformarsi nel meraviglioso costruttore dell'edificio più  straordinario che si possa immaginare: quello della pace. Si può , dunque, vivere senza la guerra. Non si può  , invece, e non si deve fare a meno del lavoro, che costituisce l'impegno primario per l'uomo, l'unica cosa veramente importante della sua vita..    Senza che ci debba far largo a forza di spinte pur di arrivare. Già, arrivare! Ma dove?
Ecco la ragione per cui affronto la tematica del tarlo, perché il suo viaggio nel legno è analogo al percorso dell'uomo nella vita, un itinerario quasi cieco, dove gli influssi della società e di tutto ciò che lo circonda lasciano segni indelebili, frutto che di decisioni giuste e sbagliate, di lotte, di paure e di speranze. Il mio compito di artista è quello di vitalizzare questo discorso e trasformarlo da un'inutile discussione su luoghi comuni in quella assai più feconda della confidenza dell'uomo nei suoi destini. Nelle continue varianti reperibili nelle mie sculture cerco di raggiungere, senza però esagerare, anche valenze intimistiche in grado di presentarsi nel mondo con la loro autenticità personalissima, che non è tanto risultato dell'istinto o della manualità, quanto del progetto razionale e finalizzato. Il mio lavoro, è facile rendersene conto, è disciplinato in vario modo ma sviluppato di conseguenza, utilizzando i valori ortogonali e, talvolta, sempre all'interno del modulo, linee oblique tanto da presentare un manufatto né monotono, né omogeneo. Naturalmente, tendo a tradurre nella scultura concetti ritmici, usando la divisibilità, sufficiente a scandire le forme e lo spazio che le circonda. Da opera ad opera diverse sono le misure, l'impianto e il senso interpretativo, tanto da suggerire attraverso la situazione formale la possibilità di una lettura diversificata di un discorso che tende a entrare in profondità nell'anima umana per esaltarne le componenti migliori. Uso, talvolta, figure solide cilindriche, nelle quali la scoperta del tarlo, spesso, è naturale perché veramente avviata dal bruco, e la casualità del percorso, dovuta alla differente durezza del legno e dalla conseguente, automatica scelta dell'insetto, rende emotive le forme, da me logicamente disciplinate per raggiungere quell'equilibrio necessario a dare all'oggetto plastico la sua funzione. Più spesso, adopero parallelepipedi a base quadrata e seguo le tracce di un tarlo immaginario, apposte in modo non ritmico e non simmetrico. La luce, assorbita e respinta dall'intrecciarsi dei piani, dà vita all'insieme e suggerisce addirittura effetti pittorici quanto mai suggestivi. Le considerazioni appena accennate aprono un discorso con chi guarda sempre nuovo e propongono la libertà dell'invenzione come occasione dialettica, stimolante ed evocativa. Forme, luce e modularità contribuiscono, dunque, a proporre un movimento virtuale, ricordo della lezione dinamica di quel Futurismo da cui provengo. Il ciclo della mia ricerca è così delineato nelle sue linee progressive e spero non ancora concluso.


(Stralci da una conversazione dell’artista nella sede dell’Agenzia libraria Einaudi dei Fratelli Torresi a Macerata la sera del 21 dicembre 1981. Lo scritto è stato poi parzialmente riproposto, con minime varianti,  come “Dichiarazione di poetica" in Ricerche contrapposte. Marche Anni Ottanta: Un’indagine artistica sul territorio, a cura di Anna Caterina Toni, De Luca Editore, Roma 1984)

 
 
 
 
 
 
 
 
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