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La ricerca plastica di Umberto Peschi
Non è facile comprendere le spinte motivazionali dell'attuale ricerca plastica (e dei suoi esiti) di Umberto Peschi se non si hanno ben presenti le origini del suo operare e il terreno di sedime ln cui esso è venuto sviuppandosi. Ma quando si è detto che questo scultore aderì, agli lnizi degli anni '30, poco più che ventenne, a quella sorta di revival del futurismo che da alcuni è stato deflnito aeropittura e che Prampollni preferì chiamare realismo astratto o idealismo cosmico, non è che abbiamo esaurito il discorso sulle fonti della scultura di Peschi; il riferimento curriculare ci serve soltanto a ricordare che per lo scultore maceratese il dualismo figurazione-astrazione è una falsa querelle, o meglio, è un dilemma mai esistito, una contrapposizione nominalistica inventata da chi sul positivismo di certe asseverazioni storicistiche ha innestato li germe di una maieutica tutta personale e visionaria. Anche quando si è trovato ad elaborare forme connotative di una realtà imitata, le soluzioni plastiche per Peschi hanno sempre trovato un modo d’essere nel giuoco calcolato dei piani e dei volum!i e nel rapporto di questi con lo spazio, piuttosto che nella suggestione di un figuralismo tra cubista ed espressionista, come è accaduto a non pochi di coloro che erano partiti da premesse identiche. E occorre anche dare atto a Peschi di aver resistito, strada facendo, alle sirene insidiose che lo incitavano, sulla scia di una restaurazione di forme obsolete per carenza di supporti ideologici, a recuperare i triti stilemi della scultura apologetica e trionfalistica, insistendo invece a scavare e ad approfondire -proprio come il tarlo, al quale ha carpito la prerogativa di un certo tipo di work in progress, incessante e ordinato, direi programmato, essendo il legno la materia preferita da questo artista -per configurare morfologie di respiro architetturale, dove niente è lasciato al gesto, ma dove I’astrazione nei morfemi di base è pur sempre in diretto rapporto con fa manualità del faber che, moltiplicando il gesto all’infinito, fino alla teorica consacrazione del nulla esaustivo, determina univocità tra pensamento e azione. Le strutture plastiche di Peschi sono dunque il risultato di questo mirabile sincretismo, sempre sorretto da una lucidità razionalistica, tra progetto ed esecuzione: il tessuto modulare è in funzione della sua progressione dinamica e questa della sua ubiquità spaziale, in quanto la iterazione del modulo (il lavoro del tarlo!) virtualizza una maglia ordita all'infinito, per omologia. L'artista ci dà pertanto, ogni volta, il. “particolare" - autonomo e in scala umana di una ipotesi di costruzione spaziale, alla stregua di un dodecafonista che con la “serie” iniziale di suoni imposta, tematicamente e strutturalmente, il discorso musicale.
Carlo Melloni
ottobre 1975
Dal Catalogo della mostra alla Galleria La Margherita di Porto Potenza Picena (novembre 1975)
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UMBERTO PESCHI
È noto che il rapporto tra lo scultore e la sua opera è di tipo sadomasochistico, ben inteso quando si tratti di sculture che fondi il suo lavoro sul principio: distruggere per costruire, cioè quando egli aggredisce un blocco di qualsivoglia materia per ridurlo alle proporzioni della sua finalità progettuale. Nel caso di Peschi, Il processo di elaborazione dell'immagine plastica -essendo Il legno la sua materia preferita -si attua con una metodica che considera ogni truciolo, ogni parte scartata come una porzione di materia sacrificata ad una superiore idealità, ad una conquista (che, come ho scritto altra volta, in questo scultore è frutto di univocità tra pensamento e azione), quasi che Peschi, come Geppetto, avverta i lamenti del pezzo di legno-Pinocchio. Questo amore per il medium lo si scorge anche nell'attenzione che Peschi pone alle venature del legno, al suo colore naturale, persino alle nodosità elevate al rango di elementi figurativi. L'aspetto, per così dire, sentimentale non sommerge però l'intento utilitaristico, cioè il fare dell'artigiano che piega la materia alle proprie esigenze costruttive, ma soprattutto non crea ipoteche sul risultato ultimo, che è quello che conta. Un risultato che Peschi persegue da tempo con rara coerenza, in una sintesi creativa in cui la libera articolazione delle forme si congiunge con il rigore della volumetrla geometrica. La costruzione è «in nuce» nel modulo e la perfetta scansione dèlla serialità modulare sta a significare l'occupazione dello spazio metafisico da parte della materia, mentre l'alternarsi di scavi e di aggetti è cronometrica, rivincita sul tempo, cooptazione dell'attimo in una sequenza formale polisemlca: architettura arcaica o moderno ziggurat o stele misterica, nel quali chi abbia la ventura di specchiarsi astraendo dal presente, può cogliere il nitido segnale dell'insoddisfatto aprirsi dell'uomo al perfettibile.
Carlo Melloni
(Dal catalogo III Rassegna Nazionale d’Arte Figurativa – Doppio Versante, Acquaviva Picena, 4 luglio-1 agosto 1982)
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Tempo Cronologico e Tempo Esistenziale nelle opere di 12 artisti marchigiani
Questa mostra è nata quasi per aggregazione spontanea degli artisti che la compongono, favorita dalla disponibilità di uno spazio espositivo ideale, in una città come Macerata dove le strutture espositive, pubbliche e private, non fanno certo difetto. La circostanza che uno degli artisti espositori sia il proprietario dell'ambiente che li accoglie ha la sua importanza, ma c'è un aspetto di questa mostra che non va trascurato e che, anzi, ne rappresenta il naturale elemento di coesione. Mi riferisco alla «qualità» delle singole presenze del- la rassegna, tutte orientate a significare, in termini linguistici assolutamente estranei a qualsiasi genere di raffigurazione didascalica e apodittica, il modo, tra concettuale e astratto, di affrontare e risolvere il problema della forma artistica. Va precisato, a questo riguardo, che tale problema non si pone per questi dodici artisti come ricerca fine a sè stessa, come tentativo cioè di concretizzare un prodotto nel quale siano visualizzate le metodologie del fare artistico, eludendo di esso ogni rilevanza finalistica. Vero è che per alcuni di questi artisti l'estro creativo non può prescindere dall'insistito impatto con i materiali usati per dargli forma espressiva, per cui il «manufatto» talvolta dispone di una propria virtuale finitezza, di una seduzione purovisibilistica. Ma questo non è un difetto, anzi direi che in casi del genere s'instaura un primario rapporto tra medium materico prescelto dall'operatore artistico e la sua intrinseca potenzialità iconica: un rapporto ora narcisistico ora incestuoso, che in una seconda fase si libera ad una funzione mitopoietica, raggiungendo quello che si potrebbe definire il magico punto d'ignizione, cioè il momento della sua messa a fuoco da parte di chi è capace di provare una qualche emozione dinanzi a un prodotto artistico. In altri casi, invece, l'opera d'arte si consegna con assoluta immediatezza alla destinazione voluta dal suo autore, sincronizzando i due momenti di cui si diceva più sopra, per cui, dato un risultato finale in tutto simile al primo, la variante è costituita dal fatto che non si appalesa alcuna momentanea discrasìa tra operatore e medium. Poste tali sommarie premesse, il lettore delle immagini di questa mostra valuterà autonomamente quelli che si sono voluti indicare come due percorsi diversamente accidentati attraverso i quali pervenire alla realizzazione di un'opera d'arte (si ricordino, in proposito, le teorie di Morris e Ruskin e i principi operativi del Bauhaus); io mi azzarderei, intanto, rifacendomi alla comune matrice estetica degli artisti di questa rassegna, di cui dicevo all'inizio, a stabilire alcune partizioni, in relazione soprattutto ai risultati che ciascuno di essi consegue, inquadrati nella prospettiva storica di alcuni ricorsi che, nel momento attuale e nel passato recente, hanno caratterizzato il trapasso di moduli operativi dall'una all'altra area di ricerca, sovente tutt'affatto diverse. Definirei, quindi, grosso modo, astrattismo antropologico-romantico i lavori di Arduini, Cacchiarelli, D'Angelo, Giuli, Piattella, Ricci, Sguanci,Tulli; neo-concretismo spazialista quelli di Alimento e Peschi; strutture semiologiche quelli di Craia e Mussio. All'interno di tali gruppi, i singoli assumono posizioni del tutto autonome rispetto a quelle contigue, non solo, ma talora appaiono dialetticamente disposte ad un confronto reciproco. Ad esempio, l'invito festoso al gioco (I'homo ludens di Huizinga esce dall'ibernazione teoretica) che Wladimiro Tulli (lasciata da tempo alle spalle l'ebbrezza del turbine futurista) esplicita dai suoi dipinti -estremo tentativo di socializzare l'arte -non sembra trovi eco favorevole nelle composizioni binarie di Franco Giuli, per il quale le forme crestate inclinano ad un travaglio dialettico che parte da lontano, diciamo dalle ricerche di questo artista sulla terza dimensione reale del dipinto, e che non appare risolvibile al di fuori di un equilibrio di forma e contenuto, e nemmeno nelle rarefatte composizioni di Claudio D'Angelo che, in una inedita (per lui) accezione neo-romantica, pone sotto vetro memorie indistinte e paesaggi interiori, affidati a frammenti esausti di cartacarbone, dominati dal «segno» (grafo e topos) uscito indenne dalle tempeste spazialiste delle sue precedenti esperienze sulla dinamica dei segni, come una reliquia da conservare in teca. Della sindrome magico-rituale, con una più accentuata conversione alle notazioni di antropologia strutturale, le sculture lignee dipinte di Lore- no Sguanci mostrano una più scoperta correlazione -proprio per una più marcata incidenza dell'astanza dell'uomo, costrutto re e divinatore del proprio destino -con le tavole geo-agronomiche di Sante Arduini. Ma se l'uomo di Sguanci sembra maggiormente Vocato a privilegiare la sfera del numinoso o del trascendente, l'uomo di Arduini e anche quello di Oscar Piattella, appare più ancorato alla terra e alle sue passioni, è il faber proiettato in una dimensione di progressivo riscatto dalla maledizione primigenia. l «muri» di Piattella sono il simbolo dell'asocialità dell'uomo, ma anche della sua munificenza e della sua piena consapevolezza ad operare il tentativo di ricreare, con fatica e con ingegno, un simulacro dell'eden perduto. Con i suoi «libri» e con le sue «testimonianze» di un limite «Alfonso Cacchiarelli si colloca nella posizione di chi osserva la crisi dei valori contemporanei e ne descrive, non per immagini salienti, ma per pause e per silenzi significativi, le tappe del suo tragico espandersi. Più che di segni, le sue tessiture materiche sono colme di segnali dedicatori, sono memorials di una condizione umana cancellata dalle pagine di annosi palinsesti, che attendono di essere riscritte, come infinite volte è accaduto nella storia tormentata dell'uomo. Avvinto dalla plasticità delle forme stereometriche, Nino Ricci ha articolato per vari anni un discorso che partiva dalla definizione di volumetrie pensate in funzione di una loro disaggregazione da possibili referenti spaziali, per concludere che, nella loro virtualità tridimensionale, erano esse stesse spazio, generatrici di sottili relazioni infrastrutturali. Più recentemente, questo artista ha percorso il breve tragitto che separa il terreno della sperimentazione delle forme astratte da quello illusorio della quarta dimensione, cioè del «tempo senza tempo», della cristallizzazione del flusso di memoria. In questa declinazione neo-metafisica, la pittura di Ricci evita di proposito gli spazi tenebrosi e proditori delle piazze, per ripiegare su una oggettualità che definirei domestica, nel senso che ciò che appare nel dipinto non è che la trasposizione per riduzione, dal collettivo all'individuale, del rapporto tra la fisicità delle cose e la loro va- lenza spazio-temporale, qui ricondotta in un ambito personale, intimista. Ne risultano delicate trame poetiche, capaci di aggrovigliare i pensieri anche di chi guarda questi dipinti. Alfredo Alimento non teme, invece, di dare plastica risonanza al conflitto immanente tra ordine e caos, di cui ci offre alcune testimonianze esemplari. Qualche anno addietro, di questo conflitto egli ci mostrava immagini, per così dire, tautologiche, perché i lacerti umani esibiti nel contesto di assemblaggi variamente articolati erano i simboli inequivocabili del dramma esistenziale odierno. Nei suoi lavori più recenti, l'assillo testimoniale sembra quietarsi in ben costruite linee architetturali, dove nulla è lasciato al caso e tutto appare composto dalla logica del software. Ma le connotazioni simmetriche alternate alle scansioni asimmetriche e la specularità degli inserti in acciaio inox di queste opere mascherano sol tanto la latenza della fragilità che è al fondo di ogni costruzione che nasce da spinte contrastanti e che queste utilizza come pietre angolari; in altre parole, sull'equilibrio di queste impeccabili composizioni incombe la minaccia di una improvvisa rottura, ma noi non sappiamo a favore di chi o di che cosa, anche se, pessimisticamente, possiamo presumerlo. Dobbiamo essere grati a Umberto Peschi per la lezione di grande professionalità che da decenni ci impartisce, senza mai porsi in cattedra, anzi con una umiltà che è inversamente proporzionale alla sua reale statura di artista. Che è notevolissima, come ebbe ad intuire per primo, agli inizi dell'attività dello scultore maceratese, un artista della tempra di Prampolini. Perché Peschi è un artista eccezionale? Innanzi tutto, perché ha la rara virtù della coerenza, poiché ha la capacità, anch'essa non comune, di continuamente affinare il magistero fabrile al fuoco della verità poetica. Una verità che Peschi, a poco a poco, togliendo truciolo su truciolo alla docile fibra del legno che, da sempre, costituisce la sua interlocutrice prediletta, viene dispiegando con la stessa metodica e paziente operosità di chi setaccia infiniti corbelli di sabbia aurifera per portare alla luce, infine, le splendide pagliuzze d'oro. Ogni scultura di Peschi ha il dono della perfezione formale, entro la quale si racchiude, con I'euritmia della costruzione progettata da uno scultore/architetto che sa coniugare I'esprit de geometrie all'esprit de finesse, il catturato universo dei nostri sensi. Colori da acquario, quasi segnali provenienti da culture appartenenti a mondi sommersi, rivelati dalla luce della lampada di Wood, in ambienti dove, appunto, i colori sono parole decrittate, carte al tornasole di cui non possiamo ignorare gli avvertimenti. Oppure tele maculate da tenui cromìe sulle quali s'inseguono parole e frasi evocatrici di piaceri sensuali, di mete da raggiungere di continuo, suggerite da un vorticoso perpetuum mobile della fantasia. Attento analizzatore delle moderne tecniche della comunicazione di massa Silvio Craia, con queste opere indirizza preci- si messaggi al lettore d'immagini, costringendolo peraltro ad una ginnastica mentale alla quale i più sono stati disabituati dal martella- mento della pubblicità audiovisiva. Per i più pigri, Craia ha escogitato curiosi oggetti, a metà tra la scultura e il gadget, che egli chia- ma "idrologie": sfere in plexiglass trasparente contenenti acqua distillata. Dal lato chimico esse rovesciano il significato del famoso scatolame scatologico di Piero Manzoni, ma I'intenzionalità provocatoria è la stessa; nel caso di queste "idrologie", sia nei confronti degli inquinatori delle acque sorgive e fluviali, sia per chi guarda all'ecologia come ad una divinità da venerare in modo insensato. Infatti, se le capovolgiamo, le sfere idrologiche di Craia non si esibiscono nell'effetto nevicata. Di Magdalo Mussio si potrebbe dire, parafrasando il titolo di un famoso film, che egli impagina ciò che è accaduto domani. Le sue tavole multimediali sono un coacervo di notazioni autografe, di fotografie, di disegni e di grafici, di segni stenografici, di caratteri tipografici, di macchie di origine e consistenza incerte e di altro ancora: tutto questo assomiglia molto, come linguaggio criptico, a quelle stele che sono pervenute a noi da popoli antichissimi, le iscrizioni non sono ancora state sicuramente interpretate. Penso anche a quella piastra metallica applicata dalla NASA non so più a quale navicella spaziale destinata a vagare nel cosmo, che reca incise diciture e disegni molto sommari, i quali dovrebbero far capire agli ipotetici abitatori dello spazio che esiste un pianeta Terra, nel quale vivono individui di- stinti in uomini e donne. La differenza tra i messaggi interplanetari e quelli di Mussio consiste soltanto negli anni/luce che impiega- no per arrivare a destinazione. Per il resto sono assolutamente identici. Anche Mussio, -che strizza l'occhio ai modi compositivi delle narrative-art -ci informa che esiste un pianeta chiamato Terra, abitato da uomini e da donne, ma egli non ha il pudore degli scienziati della Nasa. Di uomini e di donne, infatti, egli ,ci fornisce informazioni a iosa, ma i suoi dossiers, purtroppo, non sono ordinati come quelli dell'lnterpool. Ricostruire I'identikit di quegli uomini e di quelle donne diventa per noi impresa disperata. Ecco perché Mussio lavora per i posteri.
Carlo Melloni
Maggio 1985
(Dal catalogo Tempo Cronologico e Tempo Esistenziale nelle opere di 12 artisti marchigiani, per la mostra agli Amici dell’Arte - Studio Cacchiarelli - a Macerata, 18-30 maggio 1985)
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Vocazione e Artigianalità
"lo penso che un vero scultore, come qualunque altro artista del resto, sia già tale quando si affaccia alla vita lavorativa; per un certo verso egli ha già pronto il bagaglio delle cose da dire. Il tempo, lo studio, la riflessione gli consentiranno di aggiustare l'uso delle sue idee, di migliorarsi nell'espressione, di organizzare meglio la propria vita artistica, ma non di nascere come vero scultore se non lo è già". Sono parole di Umberto Peschi e mi pare che con esse egli voglia sottolineare che due sono le componenti fondamentali di ogni vero artista: la vocazione e l'artigianalità, cioè la capacità di fare. Peschi possiede entrambe queste doti e il complesso del suo lavoro di artista, che ha ormai accumulato mezzo secolo di prove e di esperienze, ne è la più certa testimonianza. Semmai resta da verificare, essendo indiscutibile l'impegno artistico dello scultore maceratese, quale uso egli abbia fatto della sua manualità. I riscontri sono tanti, disseminati come s'è detto in un ampio arco di tempo, ma chi abbia avuto la fortuna di averne diretta conoscenza, almeno di buona parte di essi (come è il caso di chi scrive queste note) non può che rendersi partecipe e garante di un percorso creativo nel quale l'estrema linearità del linguaggio, soprattutto ad iniziare dalla metà degli anni '50, è pari alla coerenza con cui è stato esibito e approfondito. Il linguaggio artistico attuale di Peschi nasce infatti da un'antica consonanza instauratasi tra l'artista e uno dei materiali più duttili e docili per un forgiatore di forme, ma anche, proprio per questo, meno incline ad essere strapazzato. Questo materiale è il legno. Se dobbiamo credere al Woelfflin quando ci parla delle "forme corporee dell'arte" (in "Prolegomeni a una psicologia dell'architettura"), cioè a quella corrispondenza tra forma artistica e comportamento del nostro corpo, per penetrarne lo spirito e la bellezza visibile, vale a dire per "possederla", il nostro pensiero corre instantaneamente a Peschi. Personalmente, non ho mai incontrato un artista che fosse, come lui, così intimamente connesso alla forma che, per suo merito, lentamente sboccia dal massello di legno. Altra volta ho potuto parlare a proposito di questo scultore, di rapporto di tipo sadomasochistico con la fibra lignea, proprio perchè collocandosi il procedimento plastico di Peschi tra quelli che "toglie" alla materia, (e per lui non è mai esistito altro metodo di lavoro, dal periodo dell'aeroscultura degli anni '30 e '40, a quello cubo-surrealista dell'immediato dopoguerra, a quello attuale), il suo ricercare la forma scavando nella materia (il lavoro del tarlo, com'egli lo ha definito) è psicologicamente ingrato, ma tutto è sacrificato ad una superiore idealità, che è anche appagamento dei sensi, come è giusto che awenga dinanzi a qualsiasi opera d'arte. Nelle forme di Peschi vi è anche una logica matematica, che riconduce ai grandi teorizzatori dell'arte classica e agli artisti che ne assorbirono il pensiero, traducendolo in opere di insuperabile bellezza apollinea, inserite in architetture coeve, esemplari per l'armonia delle parti. Ecco: eleganza estetica e assoluta armonia dei moduli (ritmi) compositivi sono le inscindibili qualità diadiche della scultura di Peschi.
Carlo Melloni
Dal catalogo Arte Astratta nelle Marche 1935-1985
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Omaggio a Peschi
“…Il 2 luglio scorso, il maceratese Umberto Peschi ha raggiunto felicemente, in pieno fervore creativo, il traguardo dell'80° compleanno. Sia consentito a chi, come il sottoscritto, da oltre un quarantennio si onora della sua amicizia, nell'occasione di questa mostra che lo vede, tra i partecipanti, il più ambìto, un fraterno augurio. A suggerire nell'ambito di "Motu proprio" un doveroso "omaggio" a Peschi non è soltanto la lieta ricorrenza anagrafica, ma anche la piena consapevolezza nostra, mia e dei suoi numerosi estimatori, che l'artista custodisca nella sua eccezionale dimensione umana il segreto del suo transitare indenne, dagli anni '30 ad oggi, nel vorticoso manifestarsi di tendenze artistiche molteplici, non raramente sovrastate da pesanti influenze ideologiche. Facendo appello al suo innato senso della pulizia interiore, egli ha potuto, dopo l'iniziale sodalizio/alunnato con Prampolini, l'esaltante esperienza del secondo Futurismo e, quindi, la fugace adesione alle correnti post-cubiste, approdare alla poetica neo-concretista e costruttivista. Si è scritto molto su questo artista, ma forse non è stato detto tutto, poiché se è unanime attribuire alla sua scultura un giudizio che le riconosca, nell'articolata plasticità dell'insieme, frutto di un controllo costante della scansione dei vuoti e dei pieni e che nella iterazione del modulo (il quale, in termini di antropologia strutturale, è l'equivalente del "modulor" di Le Corbisier) istituisce la paratassi di un organismo architettonico con caratteri progettuali atemporali, non è stato mai chiarito a sufficienza il forte e ancestrale rapporto che lega l'artista maceratese al legno, la sua materia prediletta, anche se egli non ha disatteso occasionali appuntamenti con altri materiali. Che l'artista, specie uno scultore, elettivamente e tecnicamente vocato ad imporre alla materia la forza del suo intervento sull'esistente, per modificarlo finisca per instaurare con essa una forma di simbiosi, di reciproca appartenenza, non è fatto che si scopre qui. Senza scomodare Pigmalione, l'artista che plasma o scolpisce ha sempre pensato all'opera in fieri come ad una creatura con la quale si deve scendere a patti, ma senza concederle troppo. Non a tutti è dato, come a Geppetto, di ricavare un Pinocchio vivo e vegeto piuttosto che una gamba di tavolino, da un pezzo di legno da catasta. Oggi che una certa saggistica individua nella foresta, quindi nell'albero (ma non l'aveva capito anche Mondrian?) il simbolo del limite interno del terreno di sedime della nostra civiltà, il rapporto simpatetico di Peschi con il legno ha tutto il sapore di un rito di passaggio, incessantemente rinnovato, per conservare il dominio dell'idea sulla forma, anzi per connaturare la forma all'idea. Ma se il materiale ligneo rappresenta nelle mani di questo artista, il medium, esso costituisce anche una sorta di deterrente per l'operare fabrile, perché l'artista è piegato a tenere conto (e, talora, ne ricava anche un piacere masochistico) delle prerogative fisio-chimiche del legno prescelto, affinché l'opera che ne deriva, ne conservi la solare matrice. L'invarianza di questa matrice è direttamente proporzionale alla capacità di metamorfosi iconica posseduta dall'artista. Questa osservazione, a mio avviso, consente di affermare che il dare e l'avere di Peschi con la materia delle sue scultotetture in legno sono in perfetta parità.
Il suo concittadino Egidio del Bianco, giovane di anni e di esperienza, che volentieri riconosce in Peschi il suo miglior maestro, è uno scultore che della tendenza costruttivista ha fatto una sorta di bandiera; infatti, mentre in anni meno recenti ha guardato con attenzione al costruttivismo russo degli anni '20, attualmente elabora lignei modelli architettonici di sapore post-modemista, nei quali forme classiche convivono con riferimenti strutturali di tipo razionalista. Anche il lavoro di Salvatore Fornarola, nativo di Penne ma residente a Fermo, è basato sul modulo, anzi sulla ripetizione ad libitum del modulo quando le sue strutture abbiano uno sviluppo lineare, verticale/orizzontale. L' estrema leggerezza della ceramica smaltata, che è il suo medium abituale, è elemento non secondario del suo modus operandi, in quanto gli consente una duttilità compositiva praticamente illimitata, come è testimoniato dalle forme concave, convesse e sferiche da lui realizzate. Ma egli preferisce strutture semplici, che sono poi quelle classiche della geometria cosmologica teorizzata da Empedocle e da Platone, movimentate dalla luce naturale. Fulvio Belmontesi, nato a Grottazzolina e residente a Vigevano, e Giorgio Bompadre, nato in Ancona, appartengono a quella schiera di artisti, che io definisco euclidei o teorematici. Le loro composizioni sono basate su un sistema di segni che procede secondo una logica interna e che, a chi guarda, appare organizzata e dominata da una coscienza in cui, oltre i puri automatismi matematici, l'emozione, lo scatto liberatorio 0 dissacratorio hanno il sopravvento. Denotativi di tali situazioni emergenti sono, in Belmontesi, le "faglie" che interrompono la continuità del tessuto segnico/cromatico; in Bompadre, le fratture presenti in organismi circolari o le linee che da questi divergono, come se uscissero da un'orbita prestabilita…”
Carlo Melloni
Stralcio dalla presentazione in catalogo della Rassegna Motu proprio, Astrazione e/o Figurazione, Omaggio allo scultore Umberto Peschi, a cura di Carlo Melloni, Monteprandone (AP) luglio-agosto 1992
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Quarant'anni di sincera amicizia e reciproca stima
Il mio primo incontro con Umberto Peschi avvenne nella tarda estate del 1950, in occasione della mostra del "Gruppo dei Cinque", che allestimmo nei locali del Palazzo degli Studi di Ascoli, da poco ultimato. Di quel Gruppo (sorto nell'immediato dopo¬guerra più per necessità di reciproco solidarismo che per affini¬tà stilistiche, ebbe breve vita) facevano parte, con Umberto, i pittori Luigi Dania, Eraldo Tomassetti, Wladimiro Tulli e lo scultore Gino Lucchi Del Zozzo. Umberto espose piccole sculture in legno, che oggi si definirebbero d'intonazione cubofuturista, alcune delle quali trasferì , nel novembre dell'anno successivo, in Palazzo del Podestà di Bologna, alla "Mostra Nazionale della Pittura e della Scultura futuriste", del cui Comitato esecutivo egli faceva parte insieme a Giovanni Korompay, Angelo Caviglioni, Giovanni Acquaviva.
Di quella rassegna, introdotta, tra gli altri, da scritti di Carrà , Depero e Prampolini, Umberto mi inviò il catalogo, vergan¬dovi, sotto la data del 20 novembre '51, una dedica affettuosa. Una sculturina della mostra ascolana - un "Nudo femminile" - rimase a me e Umberto fu assai lieto di rivederla, insieme ad altre sue opere più recenti, nell'Omaggio che gli ho dedicato l'estate scorsa, per il suo 80° compleanno, nell'ambito della collettiva "Motu proprio" di Monteprandone. Da allora, con Umberto mi sono incontrato spesso, soprattutto in quella sua casa-torre che affaccia sulla piazzetta Lauro Rossi, dalle scale scarsamente illuminate, ripide e piene d'insi¬die (nella quale ha voluto continuare a vivere da solo, anche dopo la scomparsa del fratello Alberto e della mamma), in quanto dalla metà degli anni '50 io ho trascorso numerose estati in una proprietà di famiglia a Macchie di S. Ginesio (luogo di nascita di mia madre).
Tra i ricordi più belli che ho di lui, c'è la giornata di uno di quegli anni vissuta nella campagna di Macchie: c'erano anche il ricordato Korompay con la moglie e una giovane e bellissima pittrice veneta, Loredana Tron, alla quale Umberto faceva la corte, con la discrezione propria dello scapolo impenitente quale egli è rimasto per tutta la vita.
Anche in Ascoli ci siamo rivisti spesso. Alcune date memorabili: nel 1957 per la "Mostra internazionale d'arte grafica" in Palazzo dell'Arengo, alla quale, con molti altri, erano presenti anche lui, Osvaldo Licini, Wladimiro Tulli; nel 1964, per l'inau¬gurazione della Galleria civica d'arte grafica moderna, da me realizzata con il concorso generoso di molti artisti e quello suo tra i più solleciti; nel 1970 quando allestii, sempre all'Arengo, la collettiva "Marche Presenze Arte", con un omaggio a Licini; nel 1986 per la mostra da me curata in Palazzo Malaspina, "Arte astratta nelle Marche. 1935-1985"; nel luglio di quest'anno ci siamo incontrati alla mostra di Monteprandone, di cui ho parlato più sopra, e a fine agosto a Ripe San Ginesio, per l'annuale appuntamento artistico.
Negli ultimi 12-15 anni, superato il disagio economico che l'aveva assillato per tanti anni, Umberto aveva scoperto la serendipity dei viaggi in patria e all'estero e ovunque andasse, non mancava mai di inviarmi cartoline con cari saluti e con la sola sua firma. Soltanto adesso mi sto accorgendo che la sua amicizia per me, anche se priva di slanci smisurati, aveva qual¬cosa di nobile e di grande, ancor più della sua pur grande e incancellabile statura artistica.
Carlo Melloni
Dicembre 1992
da: Quaderni di Piccole Città, n. 3, marzo 1993, pg. 12
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Umberto Peschi ovvero il percorso della coerenza
Nella memorabile conversazione che Umberto Peschi ebbe, una sera del dicembre 1981 nell'Agenzia Libraria Einaudi di Macerata, l'Artista, ormai sulla soglia del 70° anno di età, dopo aver premesso di essere "soddisfatto di quanto mi è stato riservato dalla vita", dice: "il registro dei miei conti presenta le colonne del dare e dell'avere in perfetta parità e io non voglio per nulla rimettere in discussione il risultato acquisito". Una dichiarazione di umiltà, certo, lontana le mille miglia da quegli atteggiamenti di proterva megalomania di cui gli artisti, anche i meno dotati, fanno non raramente sfoggio e che Umberto, avendolo io spesso frequentato nella seconda metà della sua esistenza, ben protetto da quella sorta di irenismo che caratterizzava in ogni occasione i suoi comportamenti e i suoi giudizi, non condannò mai apertamente, essendo perfettamente consapevole che anche l'artista apparteneva ad una specie animale, preda talvolta di raptus incontrollati. Ma quella dichiarazione di Umberto non sarebbe pienamente comprensibile se, in trasparenza, non leggessimo anche un'altra sua affermazione pronunciata nella medesima occasione, la quale, peraltro, era per lui non una dichiarazione di principio, ma una convinzione profonda che sempre caratterizzò la sua vita d'artista. "Dimenticavo di dire - disse, quella sera, Umberto - che un vero artista non può subire dei condizionamenti, il suo diritto alla libertà non tollera disattenzioni".
Ed è una affermazione che è passata indenne attraverso tutte le querelles, vere o false, sull'ossequio o meno alla direttiva zdanoviana, sulle insulse prese di posizione dei vari Roderigo di Castiglia a favore dell'arte contenutistica e, dunque, engagé, contro l'arte astratta, per la seconda volta, in questo secolo che volge al termine, da un pulpito ufficiale definita "degene¬rata". La coerenza di Umberto Peschi, dunque, che ha origini futuriste, come tutti sappiamo, e che per il Nostro si fa datare dalla partecipazione a quella mostra curiosamente intitolata "Esposizione provinciale dei Sotto i Trenta", promossa dal "Gruppo Boccioni" e per esso da Tano e Monachesi a Macerata e visitata da Marinetti il giorno dopo di quello dell'inaugurazione (30 gennaio 1938). Umberto vi espone alcune aeroplastiche, ideo¬logicamente maturate dalla coeva frequentazione, a Roma, dello studio di Enrico Prampolini. L'immediato dopoguerra, che è momento di disorientamento per tutti, trova Peschi alla prova con il dilemma astrazione/figurazione, ma in una declinazione del tutto personale. Combattuto tra echi futuristici e iconografie prolife¬rate dal post-Guernica, le sue sculture lignee, sovente di minime dimensioni, ci appaiono talora come il frutto di un'autopunizio¬ne, che l'artista impone a se stesso, volutamente regredendo a modalità artigianali (si vedano, a tal riguardo, le sculture esposte dal novembre 1951 alla Mostra Nazionale della Pittura e della Scultura futurista in Palazzo del Podestà a Bologna), come forma di protesta nei confronti delle troppe mosche cocchiere che in quegli anni pretendevano di "ricondurre all'ordine" gli artisti. Per tutti gli anni '50, nelle opere di Peschi stenta a farsi largo l'idea di una forma priva di reminiscenza figurativa. Determinante per lui, l'approccio di Fiamma Vigo, fondatrice della galleria d'arte "Numero" a Firenze, Roma, Milano. Fiamma Vigo ha il merito di radunare un nucleo di artisti, giovani e meno giovani, che credono nell'arte non figurativa, in un'arte cioè che, con termini equivalenti, viene definita ora "astratta" ora "concreta". Nella personale del 1957 alla Numero di Firenze, Peschi pone le basi di un totale revisionismo delle scorie linguistiche che fino a quel momento, in modo più o meno marcato, avevano contaminato la sua scultura. Con le personali di Vienna e Linz del 1963, il processo di depurazione può dirsi concluso. Iniziò per lui quella straordinaria stagione artistica, che durerà ininterrottamente fino alla morte.
Non è compito di questo scritto illustrare la produzione artistica degli ultimi trent'anni di Peschi: lo abbiamo fatto e conti¬nueremo a farlo in altra sede. Qui vogliamo sottolineare con forza, ma non con sorpresa, la prontezza con cui un folto gruppo di artisti, molti dei quali con Peschi non ebbero contatti di alcun tipo, ma del quale apprezzarono la lineare purezza della sua creatività e del suo rigore morale, hanno risposto all'invito di onorarne la memoria, a così breve distanza dalla sua scomparsa, con il lascito dedicatorio di una loro opera. Non ci siamo sorpresi di questa tangibile testimonianza di affetto e di ammi¬razione, per una ragione semplicissima. Avendo da tempo acquisito la convinzione che Umberto Peschi è stato, in ogni senso, un "seminatore", gli compete a pieno titolo, nella ristretta cerchia degli artisti di questo ventesimo secolo che hanno operato vir¬tualizzando diramazioni molteplici aperte ad altrettante ipotesi reinterpretative, l'appellativo di "Maestro".
Carlo Melloni
(Scritto per il catalogo delle mostre al Convitto Nazionale, Montecosaro, Smerillo)
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