Giulio Angelucci - Associazione Peschi

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Giulio Angelucci

 

Presentazione in occasione della mostra “Avanguardia come dissenso”
di Mussio, Tulli, Peschi
Galleria d’Arte Annibal Caro 68, 1977

Che le opere di tre autori come Mussio Peschi e Tulli, allo stesso tempo così diversi e dalla personalità così definita, si trovino esposte insieme in una mostra che non si può chiamare né collettiva né personale e che non si può considerare nemmeno di gruppo, né di tendenza, mi pare sia il fatto cui maggiormente occorre riservare attenzione in queste note alle quali la necessaria limitatezza vieta il taglio di un adeguato intervento critico.
Indubbiamente, la circostanza di una tale compresenza stupisce anche perché si verifica in una situazione di contesto nella quale manca quella serata routine di avvenimenti che potrebbe motivare accoppiamenti altrimenti ingiustificabili come questo, con l’opportunità di procedere alla verifica della situazione culturale anche attraverso l’effrazione del metodo. Ma proprio in rapporto alla situazione di contesto l’esperienza quotidiana e diretta che queste tre persone hanno della realtà culturale – e non solo culturale! – della nostra provincia, sebbene sia ben lontana dal costituire il senso della loro opera, può motivare la mostra agganciandola alla situazione d’ambiente piceno-maceratese e proponendo un particolare ulteriore elemento di possibile rapporto tra il visitatore, per forza di cose non troppo esercitato, e il loro lavoro.
Il quale ultimo, per quanto partecipe della situazione generale di un circuito internazionale di comunicazione, mantiene un “made in Macerata” nel timbro postale di provenienza che (per una volta tanto!). sembra contraddire il consueto rapporto di stupefatta dipendenza culturale della provincia dai grandi centri pilota: questi oggetti non giungono catapultati chissà dove e non è possibile archiviarli immediatamente sotto la voce “Esotismi, Diavolerie, Astruserie e imperscrutabilità”. Cioè, senza con questo sollecitare riverenze incondizionate, vorrei diffidare il fruitore dalle frettolose prese di posizione alle quali eventualmente potrebbe essere indotto da una sorta di atrofia dell’immaginazione intervenuta a seguito della frequenza di un paesaggio della comunicazione visiva apparentemente in sovraccarico per la presenza di un numero enorme di varianti impercettibilmente sfumate ma tutto sommato poverissimo, per l’assenza di componenti sostanzialmente diverse, sia tra loro, che dall’iconografia consacrata (e logorata) dall’uso corrente e utilitaristico.
La libertà assoluta che l’arte consente davanti all’opera ancora da iniziare è il condizionamento essenziale di questo lavoro: non si può contravvenire al dovere di condizionarla il meno possibile per ossequio al preconcetto o di non sciuparla in strizzatine d’occhio e in eccentricità gratuite eventualmente utili a conseguire primati e soluzioni ad effetto che possono riguardare altri mestieri (magari quelli dello sport o di certo spettacolo), dotati anch’essi di pienissima dignità, ma assolutamente estranei a questo settore di pertinenza. Il quale, dai tempi delle avanguardie storiche (cioè a dire, all’incirca dai tempi della prima guerra mondiale), presenta l’obbligo morale e civile di dar corpo nell’opera, non tanto al mondo interiore dell’autore (come vorrebbe certa estetica post-romantica spoliacizzante ad oltranza) ma alla sua visione del mondo, al suo modo di porsi davanti e in mezzo alle cose.
Indubbiamente, sul malintendimento della parola “avanguardia” hanno pesato il significato del termine nel linguaggio militare e l’ideologia competitivistica, che hanno congiurato a deformarne il contenuto accentuando oltre misura il significato di “parte che procede avanti, che viene prima” e caricando il termine di un contenuto estremistico che finisce coll’esaltare, anche attraverso la considerazione di questa minoranza alternativa la consistenza di quel “grosso” che avanguardia non è. Ma c’è stata anche una volontà nella politica culturale che ha operato per escludere dalla normalità – per “criminalizzare”, si direbbe con una parola tristemente attuale – la serietà, il rigore e la tensione intellettuale di coloro che esprimendo l’ansia del cambiamento, la fantasia della differenza, i valori dell’intuitivo, dell’incongruo, del contraddittorio, dell’imprevisto e del senza-senso, hanno fatto avanguardia, cioè hanno tenuto in attività quella zona della sensibilità e dell’immaginazione che è capace di resistere alle “persuasioni” occulte e palesi, di ostacolare la manipolazione del “consenso”.
Una tale ridefinizione del significato della parola avanguardia mi pare possa essere ben illustrata – tanto per rendere il discorso un poco più concreto – dalla estrema semplicità e concretezza degli elementi formali componenti specifici, per fare un esempio, del genere “scrittura” nel quale si inserisce il lavoro di Magdalo Mussio. Sono tutti elementi semplici d’uso corrente (o, il che in un certo senso non fa differenza, archetipici) che vengono usati e composti in maniera tale da annullare il più possibile la prevalenza del significato d’uso  (per cui lo scotch attacca, la parola nomina, la cancellatura nono esiste), per esaltare il più possibile, di converso, le loro qualità estetiche secondarie capaci di rendere più significative e polisignificanti le comunicazioni nelle quali entrano, inducendo chi avesse fatto questa esperienza estetica a riacquistarsi lo spazio interiore che sta dentro la definizione della volontà: lo spessore culturale e la profondità mentale della contraddittorietà, dell’associazione di idee, del ricordo indistinto, dell’intenzionalità non del tutto definita, del ripensamento inespresso e dell’ipotesi sospesa.
Da questa angolazione della scelta dell’avanguardia come comportamento di pressione per il mutamento della situazione culturale in atto si può intuire, nell’altrimenti immotivabile compresenza di Tulli, Pesci e Mussio, motivazione di solidarietà dell’ avanguardia più recente con quella degli anni ’30 e ’40, strumentalizzata e ostracizzata soprattutto in provincia, come i due artisti maceratesi “secondo-futuristi” ben sanno, dove lo stato di disaggregazione era tale da renderli particolarmente vulnerabili.
Infatti, la presenza di Peschi e di Tulli, la cui scelta di sbilanciamento in avanti e di polemica con la stagnazione e il qualunquismo ha assunto la forma dell’adesione al cosiddetto “Futurismo maceratese”, offre l’opportunità di fare alcune interessanti osservazioni.
Intanto nell’opera di entrambi, del Futurismo storico non c’è assolutamente nulla. Il recinto del Futurismo era l’unico nel quale il Fascismo, che scarnendola dei suoi valori più significativi aveva inserito la parola “avanguardia” nel lessico paramilitare del regime “Giovani fascisti dai 17 ai 20 anni ordinati in legioni, che vengono raccolti per istruzione sportiva, ginnastica militare” (Vocabolario della Lingua Italiana, Bologna 1941, p. 108 della VII ediz. del 1951, voce: “avanguardisti”), tollerava che venissero praticati i comportamenti culturali alternativi al Novecento”. Tanto che lo stesso Licini era presente alle manifestazione ufficiali nelle sale dei futuristi.
Perché con il Futurismo, che aveva rappresentato l’espressione più ricca e più europea della cultura italiana dell’ultimo secolo e che era stato spazzato via dalla grande guerra dopo la convergenza nel grande coacervo del “Partito dell’intervento”, il regime credeva di identificare la sua “anima rivoluzionaria” e di poter mantenere una valvola di sfogo per quei fermenti intellettuali la cui comprensione sarebbe riuscita pericolosa, apparentemente senza contraddire la sua ideologia imperialistico-autarchica, dal momento che il Futurismo era italiano e condivideva l’ansia internazionalistica di tutte le avanguardie.
Ciononostante, mentre nei ristretti circoli culturali della capitale il Futurismo era considerato e riconosciuto arte ufficiale, gli strumenti di comunicazione di massa svolgevano una sistematica azione di disinformazione e di mistificazione “Movimento innovatore dell’arte, accanito contro la tradizione, imitazione, filosofia e cultura, promosso da F. T. Marinetti; audace impressionismo” (Vocabolario citato, p. 592, voce: “futurismo”), tanto che nelle vignette della stampa a grande tiratura l’aggettivo “futurista” era sinonimo di “eccentrico e senza significato”.
A parlarne con loro, i giovani che allora riallacciavano le loro irrequietezze e la loro insofferenza alla tradizione culturale del Futurismo, la memoria di questo sabotaggio si arricchisce di particolari che ne documentano attivamente partecipe, qui in provincia, lo stesso organo ufficiale del Sindacato Fascista delle Arti.
E che dire del fatto che nel primo dopoguerra questi animatori del dissenso, che erano stati gli unici eredi dell’unico precedente europeo della cultura italiana (oltre D’Annunzio), sono stati stranamente identificati con il Fascismo?
Poi, negli anni ’50, l’attenzione fu distolta dal problema dell’avanguardia per l’infuriare di una falsa polemica tra astrattisti e realisti che monopolizzò l’attenzione come se quello fosse l’unico problema culturale della “ricostruzione”.

Giulio Angelucci

Dal Catalogo per la mostra di Mussio, Peschi e Tulli alla Galleria Annibal Caro, Civitanova Marche, 1977

 
 
 
 
 
 
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